Mike Enslin (interpretato dal sempre ottimo John Cusack) è uno scrittore che si diverte a smascherare le cosiddette presenze soprannaturali. Si presenta nelle località dove la leggenda vede qualche fantasma, spirito o entità di qualsiasi natura, e sistematicamente ne sviscera l’inconsistenza. Questo è quello che fa per campare, una sorta di gioco col destino a chi dice l’ultima parola.
Un’anonima cartolina con un messaggio a proposito di un numero di stanza d’albergo, la 1408 (che, per inciso, fa 13), gli stuzzica la curiosità e decide di provare anche questo passatempo nonostante l’incontro con il direttore (Samuel L.Jackson) sia teso a scoraggiarne l’esperimento.
Ha inizio l’incubo concentrato in una semplice ora scandita da sessanta interminabili minuti.
Seppur il rivelatore incontro tra direttore e scrittore, - qui un plauso ai doppiatori che rendono bene il carisma del primo contrapposto al cinismo del secondo -, faccia presagire pathos tra le parti, il film è incentrato interamente sul protagonista, aiutato dal senso claustrofobico dei muri di una stanza d’albergo; sempre che di muri si possa parlare.
Lo scetticismo di Mike viene minato da una serie di piccole irrealtà che cominciano a far slittare le sue certezze verso un livello al quale non è abituato. La stanza si impossessa sempre più della sua vita, svuotandolo di se stesso e riempiendolo di se stessa, e ne ribalta le prospettive.
Ci si trova di fronte ad un uomo smarrito in lotta con i suoi dolori e le sue paure nascoste in fondo all’animo, mai domate e con le quali dover trovar un modo per convivere, rappresentate dalle allucinazioni che lo violentano fino alla fine; una fine indissolubilmente legata al suo passato.
Le tematiche predominanti di Stephen King, dal quale è tratto il soggetto, ci vengono mostrate in tutte le loro sfaccettature; la loro rappresentazione è, appunto, una rappresentazione per chi non fosse in grado di coglierne l’essenza.
Il finale ci restituisce l’incubo trasformato in sogno, anche se il mini-registratore la pensa diversamente. Voto: 6½
Un’anonima cartolina con un messaggio a proposito di un numero di stanza d’albergo, la 1408 (che, per inciso, fa 13), gli stuzzica la curiosità e decide di provare anche questo passatempo nonostante l’incontro con il direttore (Samuel L.Jackson) sia teso a scoraggiarne l’esperimento.
Ha inizio l’incubo concentrato in una semplice ora scandita da sessanta interminabili minuti.
Seppur il rivelatore incontro tra direttore e scrittore, - qui un plauso ai doppiatori che rendono bene il carisma del primo contrapposto al cinismo del secondo -, faccia presagire pathos tra le parti, il film è incentrato interamente sul protagonista, aiutato dal senso claustrofobico dei muri di una stanza d’albergo; sempre che di muri si possa parlare.
Lo scetticismo di Mike viene minato da una serie di piccole irrealtà che cominciano a far slittare le sue certezze verso un livello al quale non è abituato. La stanza si impossessa sempre più della sua vita, svuotandolo di se stesso e riempiendolo di se stessa, e ne ribalta le prospettive.
Ci si trova di fronte ad un uomo smarrito in lotta con i suoi dolori e le sue paure nascoste in fondo all’animo, mai domate e con le quali dover trovar un modo per convivere, rappresentate dalle allucinazioni che lo violentano fino alla fine; una fine indissolubilmente legata al suo passato.
Le tematiche predominanti di Stephen King, dal quale è tratto il soggetto, ci vengono mostrate in tutte le loro sfaccettature; la loro rappresentazione è, appunto, una rappresentazione per chi non fosse in grado di coglierne l’essenza.
Il finale ci restituisce l’incubo trasformato in sogno, anche se il mini-registratore la pensa diversamente. Voto: 6½